N° 32


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Table of Contents

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03 — cover story. paul by simon
13 — art. gatte pelose by andrej dúbravský
21 — portfolio. karlheinz weinberger
34 — portfolio. after hours by anthony iacono
40 — music.
42 — portfolio. boy comfort by yan yufeng
53 — music. ex:re
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54 — art. forgotten collages by alex urso
59 — moda. jersey johnny by elvis di fazio
69 — books. six drawings by walter pfeiffer
78 — culture. il ritorno di physique pictorial
89 — music. tamino
92 — moda. abel by torian lewin
99 — fragrances
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Model, Paul Forman at The Lab; styling assistant, Nicholas Bartolamasi.

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Alcuni anni fa abbiamo intervistato Andrej Dubravsky su TOH!. Da quel giorno siamo rimasti in contatto e attenti al suo lavoro, abbiamo osservato che la sua attenzione si era spostata da soggetti maschili con orecchie da coniglio alla Gummo verso soggetti più rurali e ruspanti, come galli e bruchi. Esplosioni di colori a grandi dimensioni caratterizzano i suoi ultimi lavori rispetto ai precedenti in bianco e nero. La curiosità di capire che cosa sia successo negli anni ci ha spinto a intervistarlo nuovamente; Anderj ci ha raccontato della sua vita campestre, della sua tecnica e di New York. Quello che è sicuramente rimasto immutato è il suo talento, la sua spontaneità e la capacità di rendere interessante anche qualcosa così goffo e brutto come i bruchi, che a suo dire sono anche simboli fallici.

Intervista di Alex Vaccani

Credo che il tuo stile sia forte; una compenetrazione tra l’astratto e il realismo. Come lo hai sviluppato?
Ho deciso di diventare un pittore all’età di diciassette anni, al liceo stavo studiando scultura della pietra e non mi piaceva per niente, cercavo altro, all’inizio volevo dipingere come Rembrantd e poco dopo come quei disegni che trovi in un libro di fumetti mescolati però all’impressionismo gay. Dipingevo unicorni con pittura al neon. Il momento più importante è stato quando a ventiquattro anni ho iniziato a dipingere con l’acrilico su tela non preparata. Ricordo che il mio insegnate all’accademia di belle arti a Bratislava mi disse di non farlo e non capisco perché gli diedi retta, alla fine mi resi conto che l’effetto ottenuto era esattamente quello che volevo: come quello di un grande acquarello. Questo strano effetto di uno schizzo incompiuto, credo calzi perfettamente con la mia personalità.

Credi che lo stile che usi sulla tela sia aggressivo?
Credo che ci sia bisogno di usare forza fisica e concentrazione mentale allo stesso momento, come quando fai degli squatt pesanti in palestra. Non credo sia un sentimento aggressivo, forse si può chiamare espressivo o romantico, poco importa.


Una delle tue ultime serie prima di questa con i bruchi era sui galli e il loro combattimento, tutt’altro che convenzionale che ne pensi?
Ho visto il mio primo combattimento tra galli nelle Filippine. Sono stato portato dal mio amante Filippino all’arena, dove i galli si fronteggiavano e la passione degli uomini nel pubblico era incredibile. Tantissima mascolinità e testosterone, sudore e odore di sangue erano nell’aria. Ho cominciato a dipingere galli nello studio di Berlino, esattamente un anno dopo il mio viaggio nelle Filippine, l’idea è cresciuta in me per più di un anno.

Quale significato ha per te la lotta tra galli?
Credo faccia parte del subconscio prevalentemente maschile, l’urgenza che provano gli animali e gli uomini nell’affrontarsi.

Ricordo che la prima volta che t’intervistai per TOH! usavi principalmente il bianco e il nero, che cosa ti ha portato da usare il colore oggi?
I colori sono cambiati dopo che ho comprato una casa in campagna nel 2015. Iniziai a dipingere mele e ciliegie osservando i cataloghi di giardinaggio che mi arrivavano per posta al tempo. Dopo tutti quei bei quadri grigi che stavano bene negli uffici degli avvocati, ero finalmente contento di usare nuovamente il colore, anche se devo dirti che amo ancora vedere quella profonda ricca consistenza nera che affoga nella tela, lo adoro.

Quanto è importante l’ambiente per le tue creazioni? Da dove vieni? Che tipo di esperienze hai avuto per essere l’artista che sei oggi?

Vengo dalla Slovacchia, la maggior parte della gente ama definirla l’Europa dell’est, ma noi pensiamo che sia l’Europa centrale. In queste terre del post comunismo c’è una grandissima tradizione della pittura figurativa. Non abbiamo avuto pittori astratti come negli anni sessanta americani. Al tempo in cui Pollock creò i suoi più celebri lavori, nella mia terra si dipingevano freschi pascoli e ragazze con abiti folkloristici, tutto in chiave moderna. Da alcuni anni cerco sempre di trascorrere almeno sei mesi all’anno a New York, che per me è una grande fuga dalla mia casa in campagna, dalle mie galline, dal mio fidanzato e dalla Slovenia. Non ho quindi distrazioni e posso dedicarmi ai libri e all’arte, la mia e quella nei musei. So che può sembrare un paradosso, ma la vita in campagna è tutta incentrata sul lavoro, come dar da bere alle piante, sfamare le galline, sistemare il tetto, il vicino ubriaco che cerca sempre di parlarmi… non è un posto di pace dove una persona si può concentrare su pensieri profondi come crede molta gente.

Come ti è venuta l’idea di dipingere bruchi?
Continuavo a vedere questi bruchi che invadevano l’Hyphantria Cunea nel mio giardino. Originariamente provengono dal continente americano, coprono i rami degli alberi con qualcosa che assomiglia a una ragnatela e mangiano tutte le foglie, così recisi i rami e li bruciai. Questi bruchi continuano a diffondersi in aree sempre più grandi in Europa a causa dei cambiamenti climatici.

Che cosa trovi attraente in questi insetti?
Penso che siano dei grandi soggetti di pittura e hanno enormi potenziali associativi.

Che cosa intendi per potenziale associativo?
Prima di tutto si evolveranno in farfalle quindi c’è questa metafora. Sembrano vulnerabili carini e pelosi ma hanno le loro armi, altri sembrano molto pericolosi ma stanno fingendo perché sono totalmente innocui. Sono anche affascinato dal loro appetito, alcune persone sono uguali consumano troppo ma non evolveranno mai in nulla di utile, rimarranno nello stato di bruco affamato per tutta la vita. Non hanno in sostanza nessun genere sono ancora bambini che non si preoccupano di nulla se non di crescere.

Da bambino giocavi con loro?
Li odiavo totalmente. Ci gioco ora, continuo a crescere ortica nel mio giardino come cibo per bruchi di farfalle occhio di pavone. Volevo fare un video mentre strisciavano sui genitali di alcuni miei amici. Li abbiamo presi la sera per girare le riprese la mattina ma durante la notte si sono trasformati in un bozzolo all’interno di un vasetto di vetro. Ci puoi credere? Hanno fottuto la mia visione artistica, ma hanno offerto qualcosa di più eccitante, la loro trasformazione in farfalle che dura solo una settimana.


Mostrerai questi quadri in alcune mostre?
Ho alcuni dipinti dei bruchi qui a New York con me, ma farò una mostra personale in Slovacchia in primavera e una a Roma nel mese di giugno. In autunno faccio una grande mostra personale nella Repubblica Ceca, ma non sono sicuro se mostrerò bruchi lì. Può essere che qualcosa di più interessante incroci i miei occhi nel giardino la prossima estate.

Che musica ascolti in studio mentre dipingi?
C’è un insano megamix di Britney su soundcloud che mi piace mettere perché mi manda in trance, mi piace anche ascoltare spesso l’album Fat of the Land dei Prodigy.

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Karlheinz Weinberger fu per buona parte della sua vita un impiegato della Siemens. Visse a Zurigo, in un piccolo appartamento, fino agli ultimi suoi giorni. In realtà la sua vita fu molto più avventurosa di quanto non riporti la biografia ufficiale: era un avido fotografo, e uno dei più fedeli testimoni delle sottoculture giovanili in svizzera negli anni sessanta.


Il suo lavoro è stato riscoperto soltanto nell’ultimo decennio, e anno dopo anno ha acquisito una visibilità sempre maggiore. L’editore svizzero Sturm & Drang ha recentemente pubblicato due volumi dedicati a suoi lavori inediti. Il primo, Halbstarke (Ribelli), dedicato alla fascinazione degli adolescenti svizzeri per la cultura americana; il secondo, Sports, dedicato ai lavori per le colonne sportive di riviste e quotidiani. Comune denominatore, la passione per la figura maschile.







Le immagini in queste pagine sono tratte da Karlheinz Weinberger – Halbstarke (Vol.1) e Karlheinz Weinberger – Sports (Vol.2). Entrambi i volumi
sono editi da Sturm & Drang che ha in cantiere anche un terzo tomo: Karlheinz Weinberger – Mediterraneo (Vol.3). sturmanddrang.net
Text by Didier Falzone

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La prima volta che vidi Mø era il 2014 quindi prima di Lean On e del successo al fianco di Diplo/Major Lazer. Ricordo che rimasi folgorato dalla sua presenza scenica, molto punk, molto disinibita, Mø è danese e come la storia insegna l’inibizione in Scandinavia non sanno cosa sia, anzi sono invidiosamente liberi e cresciuti come tali, senza quel peso del peccato che a noi pesa sulle spalle grazie al catechismo. Ricordo Mø cantare con un mini abito strech che dopo due canzoni gli è arrivato sopra l’ombelico rivelando i suoi slip di pizzo che sventolava in faccia alle prime file e il pensiero mi porta ai topless live Tove Lo, cantante della vicina Svezia e sua amica. Ahhh i paesi scandinavi… a volte penso vivano in un felice mondo parallelo. Ma tornando a Mø nel 2014 cantava i pezzi del suo primo album No Mythologies to Follow, scritto in solitudine nella sua cameretta, poi è scappata in America ha conosciuto Diplo e si è instaurato uno di quei patti artistici rari come un sincero match su Tinder. Nel dicembre scorso è uscito il suo nuovo album Forever Neverland e l’abbiamo vista suonare al Fabrique. Con mia sorpresa vedo che la sua attitudine ribelle non è cambiata, e confermo che per essere apprezzata sino in fondo Mø è una di quelle artiste che vanno viste dal vivo, dove dona tutta se stessa al suo pubblico, che la ama. Sincera, sicura di se e sorridente la incontriamo e ci facciamo raccontare la sua storia post-Lean On.

Ciao l’ultima volta che ci siamo visti era il 2014 e portavi ancora la treccia lunga, cosa è cambiato da allora oltre all’acconciatura?
Oddio mi ricordo di quella sera! Ricordo le foto alle due del mattino nel backstage, è da allora che non torno a Milano! Per quanto riguarda i capelli sai le mode cambiano…. Ahahahah (mima un colpo di treccia degno di una ghetto girl). Ricordo quel concerto, fu molto selvaggio e divertente, ora il mio show è cresciuto, la produzione è più grande ma l’attitudine è la stessa. Per me quando sono sul palco è un momento di totale libertà è questo che devi trasmettere al pubblico esortandolo a lasciare le proprie inibizioni a casa.

E poi nella tua vita è entrato Diplo!
Sono una fan dei Major Lazers da prima che iniziasse la mia carriera, ricordo che durante un intervista dissi che mi sarebbe piaciuto lavorare con loro. Successe che qualcuno lo twittò a Diplo dicendogli: “devi assolutamente lavorare con questa ragazza” e sono stata fortunata perché mi ha contattato. Ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a lavorare insieme poi il successo di Lean On ha sigillato il nostro patto, lo ha reso ancora più forte.

Quanto il nuovo album Forever Neverland è stato influenzato da questo sodalizio?
Sicuramente lo ha fatto, Lean On mi ha introdotto verso un pubblico più mainstream rispetto al mio, quindi ho cercato di sposare un suono moderno con la mia personalità. Diplo è una persona che sa spingere le persone con cui lavora ad andare oltre i propri confini, è una persona che ci vede davvero lungo, lavorare con lui è un’ispirazione, non si ferma mai. Ha cambiato il volto della musica pop. Per questo tutti oggi vogliono lavorare con lui, perché cercano un’evoluzione del proprio suono.

Dalla Danimarca a L.A. come convivono nella tua musica due posti così lontani tra loro geograficamente ma soprattutto culturalmente?
L.A. e il suo cielo blu sono l’opposto della Danimarca, è stato questo scontro culturale che ha contraddistinto il suono del nuovo album. Mi sentivo come un alieno all’inizio quindi ho cercati sia di incorporare il mood di L.A. nelle mie canzoni ma tenendomi a una certa distanza, è un rapporto di odio/amore. Amo stare a Los Angeles ma quando sono lì e come se mi dimenticassi chi sono e da dove provengo, non ritengo l’America come una mia seconda base, quando non lavoro voglio tornare in Danimarca dalla mia famiglia e dai miei amici è quello il mio luogo di appartenenza e non lo scambierei con nessun altro. Non vedo LA come la terra dei sogni, anzi.

Il titolo Forever Neverland si riferisce alla paura di crescere o al sogno americano?
Potrebbe in un certo senso far riferimento allo stile di vita di Los Angeles, sai quel luogo comune che è la città delle possibilità che se ti trasferisci lì troverai gli agganci giusti per la tua carriera e incontrerai le persone che realizzeranno i tuoi sogni. Neverland è quella terra in cui si resta giovani per sempre quindi il titolo fa riferimento alla paura di crescere e di affrontare la realtà. Viviamo in una società che ci insegna a mettere filtri davanti alla realtà e io vorrei toglierli mostrando la verità.

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Dietro la formula Ex:Re c’è una delle voci più autorevoli dell’indie anglosassone odierno: Elena Tonra, la frontwoman dei Daughters che per demonizzare un’importante break-up si è trovata con un album solista tra le mani… e che album! Tonra si mette a nudo in Ex:Re al punto che si fatica quasi a tenerle gli occhi addosso per sostenere la sua vulnerabilità, rivelando la sua vera identità.

Mentre mi recavo all’intervista pensavo che mi sarei trovato di fronte a una donna malinconica e riservata e invece sono stato sopraffatto da ironia e good vibes, “il brutto è passato ed è racchiuso in questo disco che è stato anche il mio terapista” mi dirà in seguito e penso che vorrei un po’ della sua positività e della sua energia.

Ciao Elena, come stai?
Ciao! Sono elettrizzata per la pubblicazione del disco, ora che è finito mi sembra che tutto stia accadendo in fretta e sono nervosa ed eccitata allo stesso tempo. Ma tutto andrà per il meglio! Mi sembra di uscire da questa enorme bolla dove sono stata rinchiusa a lungo e ora posso riscoprire i mondo, ascoltare nuova musica, vedere gente, questo album mi ha assorbito totalmente, sono stata per quasi un anno in un sottoscala, fatemi uscire! (ride, ndr)

Ho letto che questo album solista è stata una sorta di incidente… In che senso?
Nel senso che non avevo mai pianificato di fare un album solista! E’ successo che a seguito di una storia d’amore finita male mi sono trovata con la necessità di buttarla giù in parole, sentivo questa esigenza personale di sfogo, non fraintendermi, non sto dicendo che i testi dei Daughter non siano personali, anzi, ma questa volta era qualcosa di mio che dovevo gestire da sola senza compromessi, anche se mi faceva paura. I Daughter erano in pausa dopo 8 anni di routine studio/tour consecutivi e così mi sono trovata a scrivere un disco nei miei mesi di vacanza. Avevo sei mesi di libertà in cui sarei potuta andare in spiaggia o ovunque volessi e invece mi sono chiusa in studio! Si può essere più stupidi? (ride, ndr)

Quindi hai usato la scrittura come terapia. Ha funzionato?
Molto, mi sono sentita meglio dopo aver scritto queste canzoni. Non è un disco di pentimento, ne disperato, è un racconto per me.

Io direi che ha un suono caldo e accogliente mentre i testi suonano quasi come una necessità, avevi delle cose da dire forse solo a te stessa e lo hai fatto, sbaglio?
Grazie delle belle parole, mi scaldano il cuore. In realtà quando ho cominciato a scrivere era passato più di un anno dalla separazione quindi l’arrabbiatura era passata e ho avuto il tempo per metabolizzare il tutto. Mi fa piacere tu ne avverta il calore credo sia il modo in cui ho inserito il violoncello nei pezzo e anche la piccola stanza in cui è stato registrato. Se avessi scritto i pezzi subito, d’impeto, sarebbe stato un disco differente più triste tutto un “mi manchi” mentre quando ho cominciato a scriverlo ero nella fase “sono ubriaca qui da sola al club che cazzo sto facendo?!”.

Conosco la sensazione! Come stai ora?
Benone! La vivo come un’esperienza positiva alla fine, anche se è stato duro fare questo disco penso che mi abbia fatto davvero bene, sono più confidente in me stessa.

Perché hai utilizzato uno pseudonimo invece del tuo nome?
Non so, ci ho pensato a lungo, tutti mi dicevano di usare il mio nome perché questo disco sono io al 100% e che è la mia dichiarazione, ma credo che questo lavoro sia una parte di me non la mia totalità, sì l’ho fatto da sola ma si riferisce ad un periodo della mia vita, è la versione solitaria e ubriaca di me. Forse un giorno sarò pronta per utilizzare il mio nome ma ora, per me, non aveva senso.

Mentre eri chiusa nella tua “bolla” hai ascoltato musica? Se sì salutaci consigliandoci un disco.
No ma di recente, dopo essere uscita dalla mia bolla, ho scoperto Rosalìa e me ne sono innamorata. Mi ha fatto notare quanto sia diverso l’approccio ad un album cantato in un’altra lingua, lo affronti in maniera totalmente differente, se di solito la mia più grande attenzione va ai testi, in questo caso ho dovuto darla alla musica e alla produzione, non conoscendo io lo spagnolo. Ma la sua voce, i suoi toni, il suo accento, le melodie, la contemporaneità, mi hanno rapita più delle parole stesse. Era dal debutto dei Sigur Rós che non mi succedeva ·

Portrait by Marika Kochiashvila.

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Alex Urso, classe 1987, lascia proprio in questi giorni le stanze di Casa Testori che per due mesi ha ospitato le sue opere in occasione della mostra “A Rebours”. I lavori di Alex sono mixed-media caratterizzati da una riappropriazione dell’arte del passato, dove si gioca per contrapposizioni o sintonie inaspettate. Lungo il percorso ‘alla rovescia’ creato appositamente per quella che fu la casa natale di Giovanni Testori, troviamo un giudizio universale quattrocentesco condensato in pillole/diorami, un Guggenheim tra la giungla, ma soprattutto – in quella che fu la camera privata di Testori da ragazzo – i lavori dalla serie ‘Muséè de l’Oubli’: otto collage ‘hot’ a firma ‘Monsieur G.’. Abbiamo pensato che sarebbe stati in ottima compagnia in un numero popolato dai ‘beefcake’ di Weinberger e Bob Mizer, e gli abbiamo chiesto di raccontarci di più proprio su questa serie.

Intervista di Alex Vaccani.

Mi racconteresti la storia che c’è dietro la serie dedicata a Monsieur G.?
La serie nasce nel 2014, dopo aver trovato otto collages in un mercatino dell’usato nella periferia di Varsavia. I collages erano sparsi tra mille cianfrusaglie, scorniciati ed esposti alla pioggia. Mi hanno catturato al primo sguardo, e ho deciso di salvarli comprandoli tutti. Dunque sono collages non miei, ma che ho voluto riportare in luce.

Che cosa ti ha colpito di questi lavori?
Sono collages divertenti, realizzati con minuzia e intelligenza. In ognuno di essi l’artista proponeva un’interazione tra figure di uomini trovate su riviste erotiche del suo tempo, e cartoline del Louvre raffiguranti capolavori del passato, da I quattro continenti di Rubens, a Madame Récamier di David, al Ritratto di Scultore di Bronzino.
C’è qualcosa di molto vicino alla mia pratica: per anni la mia ricerca si è basata su un approccio anacronistico alla storia dell’arte, fatto di reinterpretazione di opere d’arte passate trasportate in contesti nuovi, per lo più attraverso la pratica del collage e dell’assemblage.

Quali altri dettagli nascondevano i collages?
Ogni collage è firmato sul retro con un nome che inizia per “G.”, ma che è difficile decifrare; per questo ho chiamato quest’anonimo artista ‘Monsieur G.’. Inoltre sono datati 1979, e su alcuni di essi vi è riportata una sorta di dedica in francese; ho quindi deciso di incorniciare ogni lavoro tra due vetri, in modo da poter leggere la data e la firma dell’autore originale.

La tua è stata un’azione di appropriazionismo in senso pieno dunque…
Sì. Il mio intervento è stato “archeologico”, di scavo e recupero di qualcosa dal passato, a cui ho cercato di attribuire nuova dignità. In questo modo ho voluto rendere omaggio a questo misterioso artista dimenticato, e a tutti gli artisti persi tra le pagine della storia dell’arte.

Cosa pensi dell’appropriazione di immagini per creare altra arte?
Gli artisti si sono sempre “appropriati” di immagini altrui, a volte in maniera più spudorata a volte in maniera più sottile e nascosta. L’appropriazionismo – intesa come “Appropriation Art” – si impone come corrente intorno alla fine degli anni ’70, quando autori come Richard Prince o Sherrie Levine iniziano ad impossessarsi di lavori di altri artisti o di immagini già note per crearne di nuove e suscitare nell’osservatore una riflessione sul concetto di originalità e autenticità dell’opera. È un fenomeno postmoderno, forse quello che più di tutti ha stimolato una riflessione sulla condizione dell’opera all’interno del mercato contemporaneo.

Che cosa ti piace collezionare?
In passato mi piaceva collezionare un po’ di tutto, ho sempre avuto casa invasa da oggetti di seconda mano e cianfrusaglie che spesso riutilizzavo nei miei lavori. Ma a parte questo mi piace coltivare la mia piccola collezione di arte, che è fatta soprattutto di disegni o opere di medio-piccolo formato. Comprare opere di artisti contemporanei è un’azione potente, di resistenza, e soprattutto molto più facile ed accessibile di quanto si creda.

Hai lasciato l’Italia per Varsavia: cosa ti ha portato ad un tale cambiamento?
In Italia ci sono nato e ci ho vissuto fino al 2012, anno in cui mi sono trasferito a Varsavia per concludere gli studi in accademia. Sono venuto qui con una borsa di studio e ci sono rimasto, ritagliandomi negli anni uno spazio a cavallo tra le due culture: oltre ai miei progetti di artista infatti collaboro con istituzioni locali come curatore, in particolare proponendo artisti italiani in Polonia e artisti polacchi in Italia.

Sei stato definito un “agitatore culturale”: come si fa ad essere un agitatore culturale?
Beh, alcune espressioni quando cercano di imporsi poi fanno l’effetto contrario, nel senso che se esistesse un modo o una regola per “essere” un agitatore culturale, e se si decidesse di seguirla, vorrebbe dire esattamente mancarne l’obiettivo. Per come la penso, l’arte deve sempre aggirare le definizioni, metterle in discussione. A me piace semplicemente connettere, intervenire negli spazi vuoti o nelle storpiature. Quando decido di curare un evento artistico lo faccio con l’obiettivo di creare qualcosa di diverso, smuovere il punto di vista dell’osservatore, altrimenti non ne sentirei il bisogno. E dato che in fondo non lo faccio di mestiere, quando curo mostre o quando scrivo di arte, lo faccio prendendomi le libertà che voglio, e facendo solo quello che penso che sia utile per smuovere anche solo di un poco la coscienza di chi partecipa con me a quel gioco.

A cosa stai lavorando?
La mostra a Casa Testori (À Rebours, curata da Davide Dall’Ombra) è stata la somma di un lungo percorso di ricerca che credo arrivato. Sono appena rientrato da una residenza a Londra, dove ho esposto un progetto inedito presso la Estorick Collection of Modern Italian Art.
Da domani non so, devo ancora rifare le valige, poi decido.

alexurso.com


All images from the series ‘Musée de l’Oubli. Eight collages by Monsieur G.’. © Alex Urso 1979/2014

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All images from Walter Pfeiffer. Bildrausch. Drawings 1966–2018. Published by Edition Patrick Frey. 492 pp., 380 ill., 78€

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Physique Pictorial è il ‘beefcake magazine’ per eccellenza, un campionario unico di uomini atletici, sexy e ammiccanti la cui carica erotica è giunta intatta fino ai giorni nostri. Era il 1951: non era ancora nato Playboy, ma Bob Mizer aveva già pensato a una pubblicazione in cui mostrare i nuovi ‘modelli’ arrivati in città, ragazzi muscolosi e dal fisico statuario pronti a ‘posare’ al naturale per amor dell’arte o del fitness. La pubblicazione, che oggi avremmo definito fanzine, avrà vita lunga e più tardi – nel ’69, ovviamente – potrà anche fare a meno di jock-strap e straccetti per un trionfo di gonfiori ed erezioni da far invidia a Butt. L’avventura di Physique finì grosso modo con la scomparsa del suo fondatore, ma recentemente la Bob Mizer Foundation ha riportato in vita Physique Pictorial per le nuove generazioni. Abbiamo parlato con Frederick Woodruff, art director della rivista e artefice del rilancio di questo pezzo di storia dell’editoria gay.

Intervista di Didier Falzone


Qual’è il messaggio di Physique Pictorial oggi?
Così come in ogni numero di Physique, sin dal primo numero di Bob Mizer del 1951, anche oggi continuiamo a porci il medesimo interrogativo: “Cosa rende la mascolinità un misterioso connubio di bellezza e seduzione?’ Noi speriamo che possa essere l’arte della fotografia a dare una risposta a questa domanda.

Tramite la Bob Mizer Foundation, il progetto Physique Pictorial porta avanti anche l’eredità artistica di Bob Mizer come artista oltre che editore.
Come hai incontrato Mizer nella tua vita e in che modo porti avanti la sua eredità artistica?

Il mio primo approccio con Mizer lo devo alla scoperta del film ‘Pink Narcissus’ di James Bidgood, un’opera veramente fondamentale che mi ha spinto a intraprendere un viaggio alla scoperta di quei fotografi e registi che si erano occupati specificatamente dell’immaginario successivamente noto come ‘beefcake’. Per quello che riguarda Mizer come artista, la Fondazione che porta il suo nome ha l’obiettivo di assicurarsi che il suo lavoro rimanga accessibile agli studiosi e al grande pubblico in generale: la sede di San Francisco funge così anche da archivio e sede di consultazione.

Sono molti i brand che stanno abbracciando l’immaginario maschile come parte integrante della loro identità, mi riferisco ad esempio alle collaborazioni moda delle fondazioni dedicate a Tom of Finland e Mapplethorpe o alla passione di JW Anderson per i ragazzi del barone Von Gloeden. Ci sono progetti per un approccio ‘lifestyle’ al mondo di Bob Mizer?
Assolutamente, è qualcosa su cui stiamo lavorando proprio adesso! Vedrete presto tanto Mizer nel mondo della moda e degli accessori… sarà sorprendente e divertente.


Ai tempi di Mizer gli uomini ammiccanti e seminudi si trovavano solo sulle riviste di culturismo, mentre oggi quel ruolo ce l’hanno le riviste di moda uomo.
Qual’è la tua opinione sull’evoluzione dell’immaginario maschile sulle riviste?

Trovo che le immagini siano da sempre testimoni di tutte le istanze più significative di un preciso momento culturale, di conseguenza la rappresentazione delle bellezza maschile segue lo stesso percorso. Le immagini catturano l’immaginazione, e l’immaginazione aiuta ciascuno di noi a inventare i diversi modi in cui intendiamo vivere le nostre vite ed esprimere i nostri valori, speranze e sogni.

Con il nuovo Physique Pictorial porti avanti anche una intensa ricerca di nuovi talenti, e sembra che questo sia per te un aspetto molto importante.
Assolutamente: uno degli obiettivi principali di Physique è proprio mostrare quei fotografi dedicati alla rappresentazione del corpo maschile il cui lavoro risulta rilevante in questo preciso momento. La selezione di immagini che ho personalmente selezionato per questo articolo ne è un buon esempio, sia dal punto di vista dello stile che dell’approccio al soggetto.



Ogni nuova pubblicazione ad un certo punto deve confrontarsi con una parola magica: ‘millennial’. Escludendo le ovvie considerazioni di marketing, si potrebbe dire che è un modo per riflettere sulle evoluzioni future di un preciso retaggio culturale. Qual’è il ruolo di Physique per una generazione abituata ad esprimere i propri colpi di fulmine a colpi di like?
Questo punto si ricollega a quel che dicevo prima circa il potere delle immagini. Le modalità possono essere diverse a causa del digitale, ma gli istinti delle persone rimangono gli stessi. Il che significa che, di base, c’è sempre una precisa e forte reazione di fronte alle bellezza. Scegliendo di pubblicare una rivista cartacea anzichè un sito – sebbene ci sia invece un sito per la Fondazione  – il nostro obiettivo è di riportare l’atto del guardare ad un ritmo più lento, quasi fosse un antidoto alle relazioni frenetiche che generano i social. Possiamo dire quindi che il nostro rapporto con i millennial sta nel fornire loro un nuovo modo di vedere e leggere l’arte.

Ultimamente c’è stato molto interesse per figure come Karlheinz Weinberger e David Wojnarowicz anche su canali più commerciali – fortunatamente il nostro bagaglio culturale sembra esser oggi più forte che mai. Ci sono degli artisti che pensi stiano contribuendo in maniera significativa al tema della rappresentazione maschile?
Questo è davvero un tema molto importante per me, e – senza falsa modestia – credo di poter dire che ognuno degli artisti contemporanei presenti sul nuovo Physique contribuisca in maniera nuova e significativa a questa forma d’arte. Sono un grandissimo estimatore di ciascuno degli artisti pubblicati fino ad oggi. Quello che vorrei adesso è concentrarmi invece sulla nuova generazione di fotografe, per indagare lo sguardo femminile sul tema della bellezza maschile – spero anzi ce ne sia qualcuna che ci stia leggendo adesso: sarei davvero felice se volessero contattarmi e propormi i loro lavori.

bobmizerfoundation.org
And you can subscribe to Physique Pictorial here


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Diciamolo, Tamino è stata la sorpresa di fine anno: quando pensi che i giochi siano finiti arriva lui e ti frega. Inaspettato, intenso, tenebroso, con quella voce à la Thom Yorke che ti irretisce e ti fa suo in un attimo. Di persona Tamino non assomiglia alla voce che ti immagini ascoltandolo, quel timbro cavernoso, quasi ipnotico non combacia con un ragazzone alto, magro, sorridente e ancora senza barba. Nato ventuno anni fa da mamma belga e papà egiziano è vissuto in un ambiente molto musicale, tanto che il suo nome è un omaggio al protagonista de ‘Il Flauto Magico’ di Mozart. Oltre a cantare Tamino è poli strumentista e produttore, il suo primo album ‘Amir’ è 100% frutto della sua mente. Lo abbiamo incontrato a Milano, ecco cosa ci ha raccontato:

Intervista di Marco Cresci

 

Come nasci artisticamente?
Ho scritto la mia prima canzone a 12 anni mentre prendevo lezioni di piano, studiavo teatro ma poi a 14 anni ho mollato per dedicarmi alla musica seriamente perché mi sono reso conto che scrivere canzoni era diventata per me una necessità.

Descrivici il tuo album di debutto ‘Amir’.
È una manciata di canzoni scritte in periodi differenti m che si completano l’una con l’altra. Vedo questo album come un lavoro fatto col cuore e senza compromessi, non c’è nulla al suo interno non voluto o non deciso da me. Sono molto soddisfatto di come ho lavorato con l’orchestra arabo-belga Nagham Zikrayat, hanno sede a Bruxelles e alcuni dei suoi membri sono rifugiati. Sono dei musicisti incredibili, mi hanno affiancato durante la registrazione del disco. Ho imparato molto sulla registrazione e sulla produzione con questo album, per poter allargare la mia visione anche a livello tecnico. Volevo un disco aperto malinconico ma non claustrofobico, capisci cosa intendo?

Sì, fondere insieme malinconia e vastità…
(ride, ndr) Esatto, possiamo dire così. Hai presente quei cantanti tormentati che si chiudono a incidere un album dentro una camera d’albergo con chitarre scadenti e litri di rum? E’ una cosa che non sopporto! Ma non fraintendermi, anche il mio album è tormentato e malinconico ma volevo esprimesse un concetto di grandezza, non voglio cantare come un miserabile ma con fierezza, quella fierezza tipica della musica araba.

Parlando di musica araba, tuo nonno era un attore e musicista arabo molto apprezzato.
Mio nonno era molto famoso in Egitto, ma proveniva da una famiglia molto povera, ha vissuto per strada da bambino così lavorava di giorno e suonava la notte fin che non si è potuto permettere il conservatorio, poi fortunatamente qualcuno lo scoprì mentre cantava in un locale a Il Cairo e divenne la star più famosa d’Egitto!

Potrebbero farne un film!
L’ho sempre pensato, ha una storia davvero curiosa fatta di sofferenze e rivincita personale.

Ti ricordi di lui o lo hai conosciuto tramite i racconti della tua famiglia?
È venuto a mancare quando avevo 5 anni quindi mi ricordo poco purtroppo, ma ricordo che aveva una voce magnifica e una grande influenza su tutta la famiglia. E’ stata mia madre a tramandarmi l’amore per la musica, ascoltava di tutto, classica, jazz, musica tradizionale araba, ma anche cantanti occidentali come John Lennon e Tom Waits che amo profondamente. Credo che mi abbia aiutato ad ascoltare ogni tipo di musica senza pregiudizi.

Qual è il primo disco che hai comprato?
‘The Bends’ dei Radiohead, un album che amo tutt’ora.


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[two_columns_one]Mr. Burberry Indigo

L’iconico profumo maschile Mr. Burberry svela una sua intrigante declinazione, straordinariamente fresca e frizzante in Mr. Burberry Indigo, perfetto per chi ama prendersi il proprio tempo, durante le sue “piccole fughe” più disinvolte e sportive, rimanendo sempre affascinante e seducente. Quello che ricorda è una boccata perfetta durante la stagione primaverile e per un’estate briosa colma di brio. Se pensiamo che per Mr. Burberry Indigo abbiano unito la star britannica Josh Whitehouse, il fotografo Alasdair McLellan, la bellissima costa inglese e il grande profumiere Francis Kurkdjian potremmo pensare che abbiano giocato facile. La fuga sembra essere la protagonista di questa fragranza dal flacone squadrato e maschile, con il tappo bottone effetto corno e il cravattino in gabardine, intorno al collo della bottiglia secondo i canoni dell’heritage Burberry. Un uomo pieno di contrasti. Classico e contemporaneo, ricercato e sensuale. Con uno stile rilassato e un carattere ribelle, sembra come se con questo profumo ritrovasse energia e vigore in una fuga spontanea dalla città.[/two_columns_one]

[two_columns_one_last]Note

Testa: Olio di limone, ribes nero e rosmarino.
Cuore: Foglie di violetta verdi, legno e menta piperita.
Fondo: Ambra, muschio di quercia bianca e musk.

Anno di produzione: 2018

Da indossare ascoltando:

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Costume National Scent Intense

[two_columns_one]Scent Intense oltre a essere il profumo di debutto, è anche la fragranza che più in assoluto incarna la vera essenza dello spirito Costume National: anima rock, stile raffinato e deciso che qui è in versione Red Edition Intense Parfum. La fragranza originale, Scent Intense, come dice il nome è più potente con una concentrazione del 25%, per ottenere un profumo ancora più definito, intrigante ribelle e come dire se non RocK ‘n’ Roll? Il saturo colore rosso ciliegia esalta le forme sinuose del flacone, rilevando un oggetto di design iconico dal carattere ricercato e sensuale come un vero e oggetto da collezione.[/two_columns_one]

[two_columns_one_last]Note

Testa: Tuberosa, Rosa, Ambra
Cuore: Ylang Ylang, Patchouli
Fondo: Zafferano, Gelsomino

Anno di produzione: 2018

Da indossare ascoltando:

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Dolce&Gabbana The Only One

[two_columns_one]Un profumo fiorito che coglie l’essenza della femminilità, raffinata e ipnotica. Questa Eau de Parfum è una celebrazione della donna, il suo fascino radioso e la sua innata gioia di vivere. Quello che la contraddistingue è il suo essere sempre in primo piano, alla fine è The Only One – l’unica, come dice il nome stesso, interpretata nello spot e nella campagna dall’attrice Emilia Clarke la famosissima bionda di Games of Thrones. L’accordo di The Only One nasce dall’abbinamento di violetta e caffè che crea un intrigante profumo fiorito inaspettato da cui deriva il suo incredibile fascino, con un fondo dal carattere voluttuoso che avvolge i sensi. Il flacone in vetro prezioso rivela un nuovo design: le linee eleganti e precise posano su un’importante base quadrata. Il color pesca della fragranza rispecchia la sua radiosità, mentre l’anello dorato dona un tocco prezioso alla confezione.[/two_columns_one]

[two_columns_one_last]Note

Testa: Violetta, bergamotto.
Cuore: Caffè, iris.
Fondo: Vaniglia e patchouli.

Anno di produzione: 2018

Da indossare ascoltando:

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Profumi Del Forte Toscanello

[two_columns_one]Profumi del Forte è la prima collezione di Torre, casa profumiera creata da Enzo Torre nel 2007 a Forte dei Marmi. Gli aromi tipici della terra Toscana, l’antica arte profumiera artigianale, lo stile senza tempo della villeggiatura balneare versiliese: il mare, le spiagge, le pinete, lo stile di vita raffinato, le passeggiate in bici, le ville silenziose, gli aperitivi al mare nella lussuosa località turistica sono questi aspetti del mondo che ci viene narrato in questi profumi. Come quello che evoca Toscanello col suo mix gourmand e tobacco incredibilmente equilibrato e armonioso. Un blend complesso e unico in cui il tabacco domina con un ricercato tocco gustativo.[/two_columns_one]

[two_columns_one_last]Note

Testa: Latte e Cacao, Rum, Caffè, Bergamotto.
Cuore: Tabacco, Tè, Fieno, Miele.
Fondo: Legno di Cedro, Ambra, Muschio, Vaniglia.

Anno di produzione: 2018

Da indossare ascoltando:

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